Altra bellezza
Nessun dubbio che le personalità di maggior interesse, nella pittura italiana della seconda metà del secolo scorso, dopo Burri e Fontana, sono Gino De Dominicis e Domenico Gnoli. Le grandi tele di Domenico Gnoli sono come oggetti misteriosi, immagini astratte per troppa fedeltà, come quando, ingrandendo al microscopio i segni sulla pelle della mano, o una qualunque minuscola porzione di carta o legno o stoffa, vediamo qualcosa che non ha più relazione con il dato di origine e diviene una carta geografica, una terra vulcanica, un’architettura imprevedibile. L’alterità si produce per accostamento di medesimi oggetti in diverse proporzioni. Avvicinandosi, ci si avvicina al segreto delle cose, alla loro essenza. Per Gnoli “le cose ordinarie in se stesse, ingrandite per l’attenzione che si dedica loro, sono più importanti, più belle e più terribili di quanto avrebbero potuto renderle qualsiasi invenzione e fantasia”. Egli individua, non diversamente da Morandi nelle bottiglie, e senza alcuna casualità, alcune cose essenziali, come autentici generi di prima necessità, tutti reperibili in un’area domestica. L’universo si può chiudere in una stanza.
Mondi reali
È difficile credere che siano passati più di trent’anni dall’apparizione del Codex Seraphinianus, un’opera sconvolgente, soprattutto per chi, come me, la conosce dalle sue origini, e ne ha subito riconosciuto l’assoluta novità, di cui non si è avuta perfetta coscienza. L’opera si presentò da sola, come concepita per un Principe rinascimentale, prima e indipendente dal suo autore. Nel suo studiolo, poco lontano da Piazza di Spagna, Luigi Serafini esplorava gli angoli sperduti di quelle terre ritrovate, illustrandone la flora, la fauna, i pesci, le architetture, l’orografia, le varietà della natura, l’organizzazione della società. Ogni immagine era accompagnata da testi e didascalie in una lingua inventata, in geroglifici per i quali Serafini aveva predisposto una Stele di Rosetta per favorirne l’interpretazione. Un virtuosismo, dal momento che tutto era già chiaro nella minuziosa forza descrittiva delle immagini. Eravamo davanti a un miracolo che non temeva il confronto con le portentose meraviglie dei grandi miniatori. Serafini non finiva di stupire per le invenzioni, e anche per la straordinaria perfezione calligrafica e quasi la perversione del disegno. Ciò che, nell’arco di tre anni, Serafini aveva elaborato, era un vero e proprio codice miniato, una enciclopedia nel senso ambivalente della illustrazione e della Encyclopédie illuministica. La soddisfazione era anche nel rivelare al mondo una così prodigiosa impresa, che, nella sensibilità contemporanea, rappresentava l’avventura più fantasiosa dopo De Chirico, Savinio e i surrealisti.
Pittura viva
L’arte di Agostino Arrivabene è colta, seducente, intrisa di simboli, ispirata sia dalla mitologia classica che dai Maestri del XV-XVI secolo (Leonardo, Dürer, Bosch). Chi osserva le opere di Arrivabene, inondato dal vortice dei messaggi velati, partecipa a un viaggio iniziatico che conduce alla rivelazione di una conoscenza di cui l’artista è generatore e dispensatore. Un moderno alchimista, capace di far vivere esperienze di carattere mistico che travalicano i limiti cognitivi dello spettatore, del conscio e dell’inconscio, una continua esplorazione del nostro “universo intimo” tra vite già vissute o vagheggiate. Le opere di Agostino Arrivabene vivono come linguaggio dell’uomo, facendo emergere tutta la potenza spirituale, esistenziale, storica che è insita nella pittura riconosciuta come tale nella sua assoluta contemporaneità.
La classe morta
Cesare Inzerillo arriva a Salò con la sua Classe Morta. Allinea i suoi residui di umanità, accomodati come le persone che furono, nei ruoli che ebbero. Una classe morta, come fu quella di Tadeusz Kantor che rappresentava gli uomini dall’altra parte della vita ormai senza più nessuna possibilità di fare nulla, ma ancora nei banchi di una classe, in una scuola popolata di fantasmi. Inzerillo porta a Salò la sua realtà sfigurata della morte. Comportamenti quotidiani, attitudini, modi di essere, di vivere sono rappresentati da scheletri, da mummie estratte da una catacomba di Cappuccini così frequenti in Sicilia, dove, vestiti e atteggiati come erano in vita, sono gli scheletri dei monaci morti. Potrebbe essere considerato, Inzerillo, il continuatore di quella tradizione. Un incontenibile Inzerillo, sopraffatto dall’ironia, che è il monito trasmesso da questi precursori, e si dissolve subito in divertimento, in gioco. Ad aspettare a Salò la “Classe Morta” di Inzerillo, c’è una classe di persone vive ed entusiaste che si compiacciono del ribaltamento di un’umanità volta ai traffici del male, uomini disponibili a ogni compromesso, traditi dalla loro stessa furbizia, arrivati all’ultimo stadio e convinti fino all’ultimo di farcela. E invece eccoli lì, oltre la speranza, personaggi di un teatro dell’assurdo, diminuiti della vita, di ogni possibilità di scampo. Sono arrivati troppo tardi. Come nelle lapidi sulle quali si ricordano le virtù di un defunto, anche se abbia condotto una vita scellerata. L’aldilà annulla le differenze, le gerarchie, le competizioni: “expecto donec veniat immutatio mea”. Ecco, giunti a quella condizione, i corpi perduti di quegli uomini non possono conoscere mutamento. Continuano a recitare il ruolo loro attribuito nella vita, non potendo sperare di avere altro destino che la fine. Con questa visione apocalittica, Inzerillo strappa il sorriso, determina ammiccamento, complicità.
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